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Il popolo dei Sogni

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L’essere umano dorme per un terzo della vita. Cos’è dunque quel terzo? Non è essa stessa un’esistenza? 

Lili Connelly ha diciassette anni e come tutte le adolescenti si sente diversa dagli altri. Niente le interessa davvero, a parte il proprio mondo interiore; nessun ragazzo le piace mai veramente e, se non fosse per la sua espansiva amica, la sua vita sociale sarebbe pari a zero. Il lavoro di suo padre ha trascinato lei e sua madre da una parte all'altra del globo, ma forse non è quello il motivo per il quale non riesce a sentirsi a casa in nessun luogo... 

"Se si dorme per un terzo della propria vita, non è forse un tipo di esistenza anche quel terzo? Se si sogna per qualche ora ogni notte, quante ore di sogno si accumulano in una vita intera? E quel lungo sogno non è, appunto, una specie di vita anch’esso? E che senso ha il sogno che faccio da quand'ero bambina?" 

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Estratto:

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Qualcuno mi fissava. C’erano parecchie maschere lì fuori, gente come me che prendeva una boccata d’aria, fumava una sigaretta o si procurava sballi illegali; ma quella figura incappucciata, per me, spiccava come in un deserto riarso. La fissai a bocca aperta.

“Mhàiri Connelly!” disse “Vieni!” e voltandosi si mise a camminare rapidamente, allontanandosi dalla discoteca.

Rimasi paralizzata per un lungo istante, poi gli corsi dietro. Era tutto assurdo e mi sentii ancora peggio quando chiamai “Haakon!” ma la figura non si voltò, anzi iniziò a correre spedita. Ero veloce nella corsa, ma quell’altro andava come una scheggia e non mi resi nemmeno conto di quanto mi avesse fatta allontanare finché non mi fermai.

Aveva svoltato un angolo che immetteva in una stradina secondaria, conoscevo bene il luogo, non era distante da casa mia.

Mi presi un istante. Poi, molto lentamente, lo svoltai anch’io.

L’incappucciato era lì ad attendermi.

“Haakon!” chiamai di nuovo, ma non rispose. Allora, qualcosa mi esortò a usare il nome che avevo udito in sogno “Luthien!” esalai quasi.

L’incappucciato levò entrambe le braccia per abbassarsi il cappuccio, rivelando due mani candide e il tatuaggio che dal dorso scompariva nelle maniche della tunica. Gli occhi azzurri di Haakon mi fissarono, con uno sguardo di scherno, come se tutto ciò fosse dannatamente divertente per lui.

“Cosa diavolo succede?” sbottai “Chi sei?

“Non poni le giuste domande!”

Mi avvicinai tanto che tra me e lui c’era una distanza di mezzo braccio “Chi sei?” ripetei, arrabbiata.

Lui si esibì di nuovo in quel suo maledetto sorriso “La domanda corretta è un’altra!” ribatté “Tu sai quale!”

“Questo scherzo non mi diverte!”

“Scherzo?!” fece, come se non conoscesse il significato della parola “E se fosse uno scherzo, come puoi averlo sognato prima che accadesse?” e sorrise di nuovo in quel modo irritante.

Non so per quanto tempo rimasi immobile a fissarlo, mentre la mia mente si estraniava. Io avevo sempre fantasticato molto ma, per quanto avessi amato e amassi tuttora la mia variopinta vita interiore, avevo sempre saputo quale fosse il limite tra desiderio e razionalità, tra sogno e realtà. Tutto quel che stava avvenendo in quel vicolo, invece, era fuori dalla mia comprensione.

“Mhàiri…” disse, dolcemente “…ponimi la domanda giusta. La conosci già!”

Sbattei le palpebre più volte, cercando di tornare al reale, ma questa realtà era troppo strana e la mia mente lottava.

“Tutta la vita hai desiderato questo…” continuò, come se dovesse convincermi “…trovare un luogo in cui sentirti a casa! Sapere da dove nascono i tuoi tormenti… capire perché ti senti così lontana dagli altri…”

“Che cosa sta succedendo?” riuscii a dire.

“Ciò che non può essere evitato!”

“Chi sei veramente?!”

Strinse le spalle “Non ha importanza chi sono io!”

“Dimmelo!” insistetti.

Lo vidi tentennare “Ero Haakon… e sono Luthien!” rispose, con uno strano tono di voce, una nota triste, avrei giurato.

“Che significa?”

“Significa che d’ora in poi dovrai chiamarmi Luthien. Il mio primigenio nome è morto tempo fa.”

“Non capisco…”

Sorrise ancora, ma stavolta non era sprezzante “Lo so. Sono qui apposta per farti capire. Ma devi farmi la domanda giusta e poi io ti porrò la mia!” fece, sibillino.

Le parole erano sulla punta della lingua, ma una parte di me aveva paura a pronunciarle; avrei potuto voltarmi e andarmene, fingere per il resto della vita che il Surreale non avesse mai bussato alla mia porta, ma non ce la feci e la curiosità fu più forte di tutto il resto “Chi sono io?” chiesi.

Gli angoli della bocca di Luthien si sollevarono, soddisfatti “Tu sei simile a me, Mhàiri!” disse “Ma non dalla mia bocca potrai ascoltare le risposte che cerchi. Sono qui per accompagnarti in un luogo, da qualcuno che ti aspetta. Questa, dunque, è la mia domanda: vuoi venire?”

Tacqui per un lunghissimo istante “Quale luogo?”

“Vieni!” e s’incamminò.

Come prima, gli andai dietro, ma stavolta camminava più lentamente.

“Aspetta… vuoi dire adesso?!”

“Sì, subito!” disse senza fermarsi.

“Subito?! Ma io non posso andarmene così…”

“Subito, non posso restare ancora.”

“Di cosa parli?”

“Parlo dei tuoi sogni, Mhàiri!” e mi gettò un’occhiata penetrante “Fidati di loro, se non ti fidi di me!”

Eravamo arrivati dinnanzi al parco cittadino.

“Come fai a sapere dei miei sogni?”

“Ne ho avuti di simili, a mio tempo.”

“Ah, beh, grazie, questo chiarisce tutto!”

“Sarcasmo. Mi mancava!”

“Già, a tutti manca il sarcasmo!”

“Non puoi ancora immaginare di cosa si arrivi a sentire la mancanza…”

Stavo per chiedere dettagli, quando continuò.

“Tutti quelli come noi li fanno!”

“Noi?!”

Ma non mi rispose, mi fece, anzi, un’altra delle sue strane domande, che suonò dannatamente socratica come quelle che spesso mi poneva Ireland “Ti ricordi un solo sogno che non sia ricorrente?”

Stavo per rispondere prontamente, quando sembrò leggermi nella mente.

“Quello di ieri notte, in cui mi hai visto, non vale!” mi anticipò.

Lo fissai, interdetta, pensando. Io riflettevo sempre, possibile che non mi fossi accorta di una questione simile? Mi concentrai, cercando di ricordare un solo particolare, un sogno stupido o sensuale, pauroso o emozionante, ma non riuscii a trovare niente. Ireland spesso sognava di volare o di cadere; mia madre traeva ispirazione per le sue tele dai propri sogni; e, giusto una settimana prima, mio padre ci aveva raccontato a colazione di un sogno in cui prendeva a calci il suo capo “I sogni non si ricordano…” balbettai, ma sapevo che stavo mentendo.

Lui rise, una risata affascinante ma terribile “Avanti! Non te ne ricordi nemmeno uno, non è vero?! La memoria tende a lasciar andare alcuni particolari, ma se sogni qualcosa che ti colpisce nel profondo, quel sogno puoi ricordartelo sino al tuo ultimo giorno. E molti svaniscono pochi minuti dopo il risveglio, ma ricordi di aver sognato!” disse “Tu invece non ricordi niente, a parte il tuo sogno ricorrente.” si fermò dinnanzi alla cancellata “Perché non ne hai mai fatti, Mhàiri!”

Lo fissai sgomenta “Tutti sognano!”

“Tutti quelli che conosci, sì! Ma tu non sei come loro!” e scavalcò la cancellata. Tra le grate sussurrò “Tu sei come me!”

“E tu chi diavolo sei veramente?” sbottai.

Rise di nuovo “Sei una fonte di emozioni forti. Piacerai a tutti!”

“Tutti chi?”

“Non devi porre a me le tue domande. Sono soltanto il tuo accompagnatore!”

“E allora finiscila di darmi tutti questi spunti!”

Fece quel suo ghigno che iniziavo a detestare.

“Vieni qui!” e mi fece cenno di avvicinarmi.

“Ti aspetti che salti la cancellata?!”

Sollevò gli occhi al cielo, poi posò la mano tatuata sopra il grosso lucchetto che cingeva il cancello; si udì un rumore come se qualcosa sfrigolasse, il tatuaggio si illuminò di una luce argentea e il lucchetto cadde a terra.

Abbassai istintivamente lo sguardo.

“Vieni!”

Lo risollevai su di lui. Qualunque congettura avessi fatto sino a quel momento, per attaccarmi alla realtà, si era appena sbriciolata.

Mi fece un gesto invitante “Mhàiri… non devi avere paura!”

“Non ne ho!” feci d’istinto. E mi accorsi che non mentivo!

Ci inoltrammo nel parco che conoscevo a memoria; poi, quando fummo sulla sommità di uno dei ponticelli che correvano sul lago, si fermò e tirò fuori qualcosa da una tasca.

Con il pugno chiuso, mi guardò “Verrai con me? Ti assicuro che sarai di ritorno per domattina.”

“Ireland chiamerà la Polizia, se non mi trova in discoteca!”

“No, se tu ora le mandi un messaggio. Inventa una scusa credibile.”

“Così mi consegno nelle mani di un pazzo senza che nessuno ne sappia niente. Il delitto perfetto!” semiseria.

“Nessuno ti farà del male! Devi decidere se andare avanti o restare per sempre nella tua ignoranza. Niente può costringerti a seguirmi. Devi venire di tua volontà o non riusciresti a varcare il confine. Ti ho posto la mia domanda, ma non mi hai risposto: verrai?”

“Dove?”

Sorrise “Nella tana del Bianconiglio!” aprì il pugno e vidi quella che sembrava una grossa perla iridescente, solo che questa iniziò a pulsare, sotto i miei occhi, della stessa luce argentea che avevo visto lampeggiare sul tatuaggio di HaakonbarraLuthien “Una lacrima di Morfeo…” disse e la gettò di colpo nel lago: in quel punto l’acqua si colorò della stessa luce. I cerchi concentrici si allargavano, senza scomporsi, sino a formare una finestra rotonda larga circa un metro.

E d’improvviso mi parve di scorgere qualcosa sulla superficie. Era come se sotto il pelo d’acqua vi fosse una televisione accesa! Riuscivo a vedere delle immagini, anche se non precise.

“Riconosci qualcosa?”

La sua voce mi strappò a quella vista “Quel segno…” e mi voltai di nuovo per guardare nell’acqua “…quell’intarsio…”

Lui annuì, come se fosse tutto chiaro. Ero sgomenta: la porta intarsiata del sogno che facevo sin da quando avevo memoria, galleggiava a pelo d’acqua nel lago.

Lui salì sulla ringhiera, agile come un felino “Fidati dei tuoi sogni, Mhàiri!” disse e prima che potessi fare o dire qualsiasi cosa, si era gettato nel cerchio d’acqua, scomparendo in un lampo d’argento.

Agii d’istinto, seguendo quella voce dentro di me che era sempre stata la più forte.

Mi arrampicai sulla ringhiera e mi ci sedetti sopra, con le gambe penzolanti nel vuoto. Le increspature causate dal suo salto si erano disperse e io potevo vedere di nuovo la porta del mio sogno ricorrente.

Riconoscevo l’armonioso disegno intarsiato, la piccola maniglia a mezzaluna che pareva cesellata nell’alabastro bianco, le venature del legno rossiccio.

Era lì, a qualche metro da me, alla portata della mia mano.

La conoscevo da anni, nei miei sogni. Gli unici sogni che avessi sognato!

Gettai a terra la maschera e la parrucca, che ancora tenevo con una mano; tirai fuori il cellulare, inviai un rapido messaggio rassicurante a Ireland e mi rinfilai in tasca il telefono.

Fissai il cerchio, la porta a pelo d’acqua, la maniglia che aspettava la mia mano e una scarica d’adrenalina mi attraversò dalla testa ai piedi: mi sentii talmente viva che capii che sino a quell’istante ero stata come morta.

Morta!

Mi detti una spinta giù dalla ringhiera e saltai nel cerchio.

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